In un futuro non troppo lontano, tra le aule di un istituto di ricerca norvegese, il dottor Asbjørnsen è alle prese con un esperimento straordinario. Non sembra aver bisogno di molto: una puntura con un liquido azzurrino, una macchina dal sapore vintage con una grande leva e parecchi bottoni, un timer da forno. Tanto basta per hackerare due delle leggi fisiche più complesse di sempre, la legge di Lavoisier e il principio di conservazione dell’energia.
Cinque anni dopo, un auditorium pieno di scienziati assiste incredulo alla presentazione che il dottor Asbjørnsen fa delle sue ricerche, mostrando “l’unico rimedio umano, globale e pratico al più grave problema dell’umanità”, quello della sovrappopolazione mondiale: la miniaturizzazione di tutte le persone del pianeta. È questa la premessa di Downsizing, il film più catastrofista di Alexander Payne che nel 2017 ci ha fatto sorridere con il suo caratteristico black humor, immaginando un mondo sconvolto dal cambiamento climatico.
Oggi invece. Be’, oggi è rimasto ben poco da immaginare.
Ormai quel futuro non troppo lontano sembra già qui, anzi sembra essere arrivato già da un bel pezzo. Tanto che una delle industrie più inquinanti al mondo, quella della moda, sta finalmente prendendo posizione. Letteralmente sta cercando di riposizionarsi su nuove coordinate, provando a stabilire un altro modo di lavorare. Più empatico verso i propri lavoratori, più sostenibile, più informato.
In un certo senso si sta facendo sempre più piccola, sta cercando di ridimensionarsi, di diminuire l’impatto che ha sul mondo.
O almeno ci sta provando. Perché il corpo che negli ultimi cinquant’anni è diventato un mito fondativo della nostra società deve essere ripensato, alla luce di tutti quei corpi che invece ignoriamo. Quelli che stanno pagando il prezzo ambientale, quelli che non rientrano nei canoni, quelli che fanno parte di una filiera malata e ormai insostenibile.
Sono quei corpi che dovrebbero guidare questo cambiamento necessario. Sono quelle le vite che dovremmo studiare per capire da che parte stiamo andando. L’avvento del digitale, la globalizzazione, la pandemia sono soltanto fattori di accelerazione di un cambiamento che è già in atto. E che ha radici molto più profonde, dentro modelli di business che non contemplano più l’essere umano come soggetto ma soltanto come strumento.
E così proprio quell’industria che fa del corpo un significante, per dirla alla Hegel, che mette in causa una certa significazione del corpo, e quindi anche della persona, sta facendo uno sforzo per ridisegnarsi, per ridare valore all’umanità e al suo rapporto con la sua immagine, per ristabilire un legame tra il corpo e la società. Perché se il vestito permette all’uomo di “assumere la sua libertà”, di costruirsi come ciò che ha scelto di essere, come scrive Sartre difendendo il Santo Genet, allora la moda non è altro che un linguaggio, con il quale ogni marca racconta una storia. La sua storia.
Lunedì 20 settembre alle 18 torniamo tra le pagine de L’Età Ibrida per raccontarla, questa storia. Per capire quali fattori hanno sconvolto l’industria della moda e in che modo il settore manifatturiero si sta rivoluzionando.
Insieme a noi Giuseppe Stigliano, esperto di marketing e di trasformazione digitale, co-autore di Onlife Fashion: 10 regole per un mondo senza regole, un saggio scritto a sei mani con Philip Kotler, guru del marketing secondo il Financial Times, e Riccardo Pozzoli, manager specialista del mondo delle start up digitali e dei social media.
Se volete seguire l’evento insieme a noi, potete registrarvi gratuitamente a questo link e farci compagnia da remoto, altrimenti potete venire a trovarci nella nostra casa fisica, Palazzo Giureconsulti di Milano. I posti sono limitati, ma se ci facciamo piccoli piccoli ci stiamo tutti.